I ragazzi de “Lo Zoo di Berlino” si raccontano. Ecco come nasce una musica senza confini

Intervista ad Andrea “Shelving” Pettinelli, tastierista, compositore, fonico, membro de Lo Zoo di Berlino e produttore musicale.

Recensito.net
21 05 2013 (Interviste)

Un incontro con i ragazzi del gruppo Lo Zoo di Berlino, da sempre coinvolti nell’ambito della collaborazione musicale e culturale all’interno del progetto di loro stessa creazione, Consorzio ZDB, è l’occasione per parlare del lancio del lavoro discografico “Rizoma” di prossima uscita. Ma per scoprire non solo i segreti di quest’ultimo, bensì l’universo di connessioni che li lega indissolubilmente a nomi che hanno fatto la storia della musica, italiana e non solo, è bene cominciare dal principio…

Come mai questo nome? Ispirato da una motivazione e un’esperienza personale oppure mutuato dall’omonimo libro?

A: Per noi nati tra i ‘70 e gli ‘80 l’adolescenza è stata caratterizzata (forse anche condizionata) da due fenomeni particolari: l’eroina e l’aids. C’era allarme ovunque: sui media, in casa, fuori in piazza, a scuola. All’epoca si viveva molto in gruppo. I ragazzi vivevano gli stessi luoghi, “divisi” in piccoli gruppi, ma comunque all’interno della stessa area. Il muretto dei piccoli, la panchina delle belle, la pista di pattinaggio degli sportivi e un blocco di cemento armato rimasto inerte, tipo il monolite di Kubrick, per i tossici.

Noi piccoli, attratti dai più grandi e sempre insieme a loro, sentivamo storie, osservavamo movimenti, esperienze. Momenti molto belli, di crescita e condivisione. Ma anche molto brutti quando vedevamo ragazzi e ragazze trasformati: poco prima attivissimi e motivatissimi nell’arte (in gran parte musica) e nella partecipazione politica, poi degli zombie veri e propri.

Capitò, andando avanti negli anni, che un paio di noi, del gruppo musicale che si stava formando, stessero leggendo il libro di Christiane F. “Noi i ragazzi dello zoo di Berlino”. Nei primi capitoli, quando Christiane racconta la sua quotidianità fatta di assenza di possibilità per i giovani, la mancanza di un luogo per essi e di cura della città che è solo asfalto, cemento armato, luci al neon e casermoni commerciali, capimmo subito l’affinità con il momento storico e con una generazione, per la quale, noi, forse privilegiati, provavamo solidarietà e tenerezza. Fu davvero un caso non aver fatto la loro fine.

Il vostro nome è indissolubilmente legato al Consorzio ZdB. Come e perchè è nata l’idea di un laboratorio musicale globale?

A: All’inizio c’è l’ingenuità, il sogno di vivere dei grandi giorni, “la grande aggregazione”. Woodstock, i movimenti antagonisti, la partecipazione a qualcosa di grande e che costruisce una liberazione plurale. Poi affiora la consapevolezza che solo attraverso lo scambio, la condivisione, l’organizzazione e la contaminazione puoi fare le cose seriamente ed in maniera divertente.

Per noi, che veniamo da contesti aggregativi di varia natura, è stato del tutto naturale dare il contributo, fin dagli esordi del nostro progetto, ad una causa comune fra diversi gruppi emergenti ed avviare percorsi collettivi. Non è stato facile, non lo è tuttora. Ma siamo ancora convinti che da soli non si va da nessuna parte.

E’ fondamentale acquisire una visione di squadra, anche solo per la propria personale emancipazione. Noi siamo debitori a tutte le persone che nel bene e male si sono aggregate al nostro carrozzone folle: siamo l’espressione di una moltitudine e molteplicità di storie ed esperienze.

Tra le vostre collaborazioni ve ne sono certamente di illustri. Quali vi hanno maggiormente ispirato e fatto crescere musicalmente? C’è stata qualche esperienza in particolare che vi ha piacevolmente indirizzato verso qualcosa di nuovo e inaspettato?

A: Si, perché non avevamo idea che avremmo potuto trasformare la nostra passione in mestiere, per poi ritrovare i nostri nomi fra i “credits” delle discografie dei nostri miti.

Il nostro sogno era condividere l’esperienza con i grandi gruppi degli anni ‘70, su tutti Area e Banco del Mutuo Soccorso. E fu proprio una lunga collaborazione con Vittorio Nocenzi del Banco, tastierista ed ideatore del gruppo, ad indirizzarci nel professionismo. Mano a mano venimmo coinvolti tutti nei suoi progetti, così l’associazione culturale che fondammo si trasformò in una cooperativa di produzione e lavoro: il Consorzio ZdB.

Ora state lavorando al nuovo progetto discografico “Rizoma” di prossima uscita. Una “musica senza confini” dove parte e dove arriva, o meglio come si crea? Qual è il progetto creativo di una track senza voci, senza testo, che ha dunque potenzialità di sviluppo infinite?

A: Il desiderio di aggregazione e condivisione. Oggi diremmo “fare rete” e “fare sistema”. Progettazione e fine culturale sono legate a doppio filo con la nostra musica. Si presuppone quindi l’istituzione, sia dal vivo che su supporto, di un tessuto fluido, su cui poggiare connessioni, o meglio desideri di connessione. Costruiamo quindi la giusta atmosfera per questo gioco collettivo.

Dal canto nostro partiamo dal recupero dell’amore per le idee, resistendo quindi alla fine della modernità, perché l’orizzonte che vediamo, nell’epoca contemporanea, ha qualcosa di barbaro, che non decodifichiamo.

Togliamo elementi di distrazione: le parole. Quando hai un’idea, nel momento che essa affiora nella tua testa, compare e basta. Essa si trasforma in parola solo quando devi esporla. Togliendo le parole vogliamo creare spazio per le idee.

Così anziché essere dei “surfisti” che rimangono in superficie, preferiamo essere ed invitare ad essere radice, che si muove in profondità.

Ci piace l’idea di costruire meccanismi di partecipazione per l’ascoltatrice/ascoltatore. E’ come un invito al dialogo del tutto casuale, che stimola i sensi e produce un proprio immaginario.

L’assenza di uno strumento ormai imprescindibile come la chitarra è una sfida ardua. Come nasce questo azzardo?

A: Una sfida per il gusto di coglierla, anche polemicamente ironica: basta coi cantanti, che non cantano ma intonano, a volte, parole troppo spesso senza musicalità perché giochi linguistici e meccanismi narrativi (che si insegnano alle scuole dell’obbligo) non vengono presi in considerazione. E poi basta con le chitarre. Chitarre dappertutto!

Ma c’è anche un lavoro di disciplina da parte nostra, che regge sull’impostazione di creare il sound con strumenti non del tutto standard per la tipica formazione rock. Un gioco all’interno del quale esplorare la comunicazione musicale.

Se poteste inventare un genere o una parola per la vostra musica, come definireste lo Zoo di Berlino?

A: ROCK. Molto semplice.

Non crediamo di aver inventato qualcosa, come non crediamo al fatto che la musica non debba essere definita. La più giusta sarebbe POP, cioè un fenomeno di cultura popolare, perché fatta dal popolo per il popolo. Ma a livello comunicativo ormai è associata ad altro.

L’aspetto della definizione, seppur ci interessi poco, è un aspetto importante, imprescindibile. Di fatto non siamo musicisti classici, non siamo dei jazzisti e siamo fuori dalle accademie. Nasciamo in strada, quindi facciamo del Rock.

(Noemi Euticchio)